Alcune riflessioni sul 15 Ottobre

 

Descrivere, senza alcuna superficialità o malafede, quello che è stato il 15 Ottobre richiede necessariamente uno sforzo di ragionamento. Occorre andare al di là delle prime impressioni, e tentare di essere quanto più oggettivi possibile. Abbiamo cercato di portare un contributo all’analisi degli eventi, pur consapevoli che queste valutazioni resteranno parziali e che probabilmente soltanto nei mesi a venire comprenderemo realmente la portata e le conseguenze degli avvenimenti appena trascorsi.

2+2=5 (George Orwell)

 Chi ha vissuto il 15 Ottobre solo dalle notizie veicolate dai media istituzionali, ne riceve un quadro già prestabilito: è una visione che è già narrazione, e come tale pretende di spiegare e valutare, dando degli eventi un quadro netto e delineato in cui sia facile e funzionale additare i “cattivi”. Ma le cose non sono mai così semplici, e viene da chiedersi a chi convenga presentarle in questa veste.

 Da destra e da sinistra, la condanna è unanime! I toni sono apocalittici: dall’evocazione di un “nuovo pericolo terrorismo”, alla riesumazione della sempre efficace e semplicistica etichetta di “black bloc”, alle operazioni francamente nauseanti dei giornali della cosiddetta sinistra istituzionale, con Repubblica in prima fila, in una vera e propria “caccia alle streghe” da sacrificare in pubblica piazza, e che “impone” una presunta empatia tra manifestanti e poliziotti, le cui vere “carezze” conosciamo bene. Il clima in questi giorni è realmente Orwelliano: mistificazione della realtà, proposte che annientano la libertà di manifestare ed inviti bipartisan alla delazione, alla denuncia dei “diversi”, di chiunque, cioè, manifesti la propria “indignazione” al di fuori dei confini prestabiliti dal sistema stesso che si intende rovesciare.

Tutti vedono la violenza del fiume in piena. Nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono” (Bertolt Brecht)

Chi sono i ”violenti”? La potenza evocativa delle immagini di devastazioni e incendi non sembra lasciare spazio a dubbi. E’ la violenza incontenibile del fiume in piena. Ma quali argini l’hanno costretta sinora, fino a farla esplodere in maniera così devastante? E’ la violenza non raccontata dell’intero sistema capitalista, che si abbatte quotidianamente con brutalità sulle nostre vite e soffoca aspirazioni, speranze, sogni: la vita precaria, la competizione esasperata, la corsa infinita verso successo e consumo, la miseria degli esclusi e degli emarginati, il controllo sociale, le morti sul lavoro (quasi 1000 dall’inizio del 2011 ad oggi!) : è un bollettino di guerra.

Il fatto che questo sia un mondo in cui l’unica prospettiva possibile è la mera sopravvivenza ci impedisce di percepire la realtà di sopruso incessante in cui viviamo. L’unico ruolo concesso è quello della vittima inerme: solidarizziamo con le migranti bambine costrette a prostituirsi, con gli operai licenziati che non riescono a tirare avanti, con le mamme anti-discarica pestate dalla polizia, ma non appena la vittima osa opporsi alla sua condizione di sfruttato, sollevandosi contro gli oppressori, allora diventa un criminale.

Tra i “teppisti” del 15 ottobre, anche i telegiornali di regime sono costretti in questi giorni a riconoscerlo, ci sono giovani e giovanissimi studenti, lavoratori precari che non fanno parte di alcuna organizzazione e che hanno come unico comune denominatore quello di non avere un futuro e quindi di non avere più nulla da perdere.

Non bisogna, quindi, assolutamente dirsi contrari alla violenza in ogni caso, ma capire che la “violenza cieca” delle masse è legittimata quando viene canalizzata verso l’obiettivo rivoluzionario. Obiettivo che si realizza solo dopo aver preso coscienza della propria condizione ed aver individuato la causa che l’ha generata.

Violenza che, a quel punto, non è più lecito chiamar tale, ma sarebbe meglio dire “resistenza”. Come è resistenza la lotta dei NO-TAV in Val di Susa, che si è provato ripetutamente a criminalizzare, senza riuscirci e che ora, come lasciano presagire le finte interviste di repubblica, si tenterà nuovamente di infangare!

Non ci sorprende, a differenza di altri, che la manifestazione di Roma, essendo la più partecipata d’Europa, fosse anche la più conflittuale. Da un lato la peculiarità italiana è stata proprio questa, l’essere riusciti a portare in piazza uno spaccato della massa, della gente reale, quella non militante e che non appartiene a strutture organizzate, quella, per intenderci, senza ideologie e senza bandiere (come spiegare altrimenti questi numeri?). Ma c’è dell’altro. L’Italia in questo momento si trova nell’occhio del ciclone, pronta a subire le stesse “cure” imposte dalla Banca Centrale Europea ad altri paesi, come la Grecia, che proprio mentre scriviamo è scesa nuovamente in piazza, in maniera partecipata e radicale, assaltando il parlamento, dopo aver dichiarato uno sciopero generale di 48 ore.

Le manovre di austerity imposte dalla BCE e sostenute dai politici di destra e sinistra di tutta Europa, si declinano stato per stato nelle manovre finanziarie e nelle “riforme” più dure degli ultimi trent’anni. Tali manovre, varate in nome di una crisi che ci viene presentata come temporanea, ma che noi sappiamo essere strutturale del sistema capitalistico, hanno condotto e conducono allo smantellamento del welfare e dei diritti fondamentali del lavoro, facendo scivolare fette sempre più ampie della popolazione verso un futuro di miseria e sfruttamento, a vantaggio del profitto di pochi.

Era quindi automatico e chiaro ai più, in primis ai politici che oggi si fingono sorpresi, che quello che è successo a Roma sarebbe accaduto, come era già capitato in passato ed in altri Paesi. La manifestazione di Roma è stata, quindi, solo questo: non più la semplice percezione di un mutamento storico, ma il netto rifiuto a pagarne ancora una volta il prezzo.

Inutile, dunque, parlare di anomalia italiana rispetto alle altre manifestazioni europee, inutile parlare di paradosso: “la più partecipata ma la più violenta”. Noi pensiamo che le due cose siano andate di pari passo, perché hanno la stessa causa (l’acuirsi della condizione di futuro “precario”) e che la specificità italiana (con le tre manovre finanziarie di quest’anno) abbia solo fatto da benzina ad una miccia già accesa, che a guardar vicino ha bruciato già nel 14 dicembre scorso (dove la protesta in larga parte giovanile pure sfociò in manifestazioni simili di rabbia).

Allora perché costruire una spaccatura tra manifestanti “buoni” e “cattivi”?

Le manifestazioni non sono mai servite a niente, altrimenti non le autorizzeremo mai” (J. Saramago)

La repressione dello stato risponde al nostro compagno Saramago. Leggiamo sulle principali testate che a seguito dei fatti del 15 ottobre sono vietati i cortei (in Val di Susa come nella capitale). Bene, facciamo paura. Questo ci fa piacere. Strano che facciamo paura, se per i principali media siamo qualche decina, al massimo qualche centinaia. Eppure provvedimenti di tale portata reazionaria sarebbero giustificati solo di fronte ad un esercito nemico, di fronte alla più inferocita massa di disperati infiammata di rabbia. Soprattutto sarebbero giustificati (seguendo Saramago) se le manifestazioni cominciassero a suscitare l’impressione al “potere” di un rischio vero. Non dunque la solita sfilata di carnevale coi carri e la gente che ride, che fa festa, contenta di essere dalla parte del giusto e di poterlo gridare, ma uomini e donne, a migliaia, decisi ad ottenere giustizia con ogni mezzo e a qualsiasi costo, per il semplice, banale fatto di non aver nulla da perdere.

Ben inteso, questo non è quello che è accaduto il 15. Quello è solo l’inizio. Da una parte bisogna partire.

Da quelle migliaia di persone (in maggioranza giovani) che erano lì a lottare. D’altra parte bisogna pur sapere che la reazione dell’apparato repressivo indica la via: hanno molta più paura di quello che possiamo essere, che di quello che siamo e siamo stati.

  “La speranza è una trappola inventata dai padroni, quelli che ti dicono «state buoni, zitti, pregate, che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà, perciò adesso state buoni, tornate a casa – sì, siete dei precari, ma tanto fra 2-3 mesi vi assumiamo ancora, vi daremo un posto. State buoni, abbiate speranza». Mai avere la speranza. La speranza è una trappola, è una cosa infame, inventata da chi comanda.

Come finisce questo film? Non lo so. Io spero che finisca con quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una bella rivoluzione.”

(M. Monicelli)

Siamo d’accordo con Rinaldini: il corteo del 15 è uno spartiacque. Ma noi ora sappiamo lui da che parte sta. Non con l’avversario politico, non con l’opposizione, ma col nemico. Non consideriamo avversario chi uccide 4 lavoratori al giorno – che Rinaldini avrebbe il dovere di salvare ma che evidentemente non riesce- non consideriamo avversario chi tiene a lavorare giovani a 600 euro al mese 10 ore al giorno, chi gioca con la contrattazione nazionale al ribasso, chi chiama “falliti” i ricercatori e “mammoni” i disoccupati, chi taglia le nostre pensioni (che non sono stato sociale ma salario differito!), chi aumenta le tasse al consumo e aumenta le spese sanitarie, distrugge il minimo diritto allo studio.

Per noi sono finiti i margini della contrattazione e della speranza.

Qui non è la struttura che scrive. Milioni di lavoratori non iscritti a un sindacato (prima di tutto i precari sotto ricatto), di disoccupati vecchi e nuovi, di migranti con o senza permesso di soggiorno, sanno che la contrattazione e le sfilate pacifiche non servono a nulla.

Dai giovani studenti, fino ai quarantenni anch’essi senza più speranza, sono in molti a non biasimare affatto la violenza, ma anzi rivendicarla, per ora anche solo a parole. Ci si rende conto che proprio grazie a quelli come Rinaldini in poco più di vent’anni a loro non è rimasto niente, e qualcuno ricorda che il sindacato che Rinaldini rappresenta era la più potente organizzazione sindacale del mondo occidentale.

Bel lavoro compagno! È questo quello che ti hanno voluto dire le masse a piazza San Giovanni, ascoltarle sarebbe il minimo, invece di additarli semplicemente come pazzi, teppisti, violenti.

Ma ci siamo proposti di essere oggettivi, ed è quindi giusto sottolineare la composizione del corteo di Roma. Molte persone non solo erano estranee alle violenze, ma effettivamente ne contestavano la legittimità, nei casi peggiori, comportandosi da repressori, fianco a fianco con la polizia (per intenderci, la stessa che ha ucciso a Genova Carlo Giuliani, a Ferrara Federico Aldrovandi, e Stefano Cucchi nella capitale proprio tra il 15 e il 16 ottobre, ma la lista sarebbe molto più lunga). Bene. Bravi questi qui, le persone per bene.

Queste persone, quelle “per bene”, sono anch’esse una massa eterogenea: da una parte, chi in malafede, aveva da strappare al corteo il proprio piccolo interesse, in termini di contrattazione elettorale, e dall’altra i molti, che ancora hanno qualche speranza, ma credono ingenuamente che questa possa arrivare dalle istituzioni. A questi ultimi ci interessa rivolgerci, perché sappiamo essere dalla nostra stessa parte, se solo vorranno fare un passo indietro ed osservare senza pregiudizi chi siamo ed essere disposti a dialogare con noi.

Chiediamo solo che si faccia chiarezza in modo pubblico e che ci si smarchi, eventualmente si faccia autocritica. È necessario sapere, oggi più che mai, da quale lato della barricata sta ognuno.

A chi conviene la “caccia alle streghe”?

A chi voleva, anche tra i movimenti, che la manifestazione fosse una sfilata e finisse con un comizio per lanciare nuove alleanze elettorali.

A chi esalta le primavere arabe in cui i leader di regime sono stati rovesciati da piazze armate ma si scandalizza per un sampietrino.

A chi già sa che gli effetti delle manovre finanziarie nei prossimi mesi aumenteranno ancora il divario tra i detentori di ricchezza privata e l’esercito di senza-futuro, inasprendo il conflitto sociale ed invoca già, per questo, misure restrittive che permettano di soffocare sul nascere ogni sussulto di dissenso.

A chi non vuole una reale trasformazione della società, ma vuole che tutto cambi affinché tutto resti uguale.

PACE SOCIALE VINCE IL CAPITALE. LOTTA DI CLASSE VINCONO LE MASSE

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