“O che i borghesi non rubano,forse? (…)quando ho portato via questo pane, a Maigrat, era indubbiamente un pane che ci doveva.”
(Emile Zola, Germinal)
“Stringere la cinghia per il bene del Paese” è il ritornello degli ultimi mesi.
Con questa lagna nelle orecchie abbiamo subito l’avvicendarsi di due feroci manovre finanziarie: tagli orizzontali alle pensioni, all’istruzione, alla sanità e ai trasporti pubblici. E per non farsi mancare niente, anche l’aumento dell’iva di un punto percentuale. Tutto ciò in un clima generale che ci invita al consumo, mentre stabilimenti cardine per l’economia italiana vengono delocalizzati e il lavoro subisce un continuo deprezzamento.
Intanto negli ultimi trent’anni, mentre questa scure si posizionava sulle nostre teste, l’iper-finanziarizzazione dell’economia è venuta in soccorso all’allargamento dei mercati provocando un generale abbassamento del potere d’acquisto e garantendo il progressivo aumento dei profitti sulla base della disuguaglianza sociale.
Stiamo assistendo all’inesorabile deflagrazione della Grecia e molto probabilmente del Unione Europea. Tutti i governi gridano ai piani di salvataggio e al ripianamento del debito pubblico.
La crisi, in una economia iper-finanziarizzata come questa, affondando i propri fendenti nei fianchi dei fanalini di coda dell’UE, ne ha colpito anche il cuore. I provvedimenti che vengono presi nei vari paesi sono pressoché gli stessi, solo con sfumature diverse. L’obiettivo comune è quello di abbattere i costi del lavoro e privarci di tutti quei servizi che di solito associamo all’aggettivo “pubblico”. E così di “pubblico” resta solo il debito!
L’Europa delle due velocità è arrivata al primo pit-stop (se non al termine della corsa). Germania e Francia, le cui economie storicamente hanno fatto da traino a tutti gli altri paesi membri, subiscono la loro prima battuta d’arresto, e con loro tutta l’ Unione.
Lungi dal perseguire l’integrazione dei popoli, l’UE rappresenta organicamente gli interessi dei grandi banchieri e dei grandi capitali in seno alla BCE(Banca Centrale Europea) , la cui ingerenza sulle politiche economiche costituisce un vero e proprio commissariamento di alcuni stati membri.
Eppure ci avevano raccontato la storiella che la crisi scoppiata nel 2007 era tutta colpa di singoli azzardi speculativi, di pescecani del mercato avventuratisi in investimenti senza copertura, di trader disonesti e di banchieri senza etica e che, risolte queste piccole degenerazioni di un sistema che “tutto sommato funziona”, ne saremo usciti illesi.
Ci stavano prendendo in giro! Non solo la crisi non è mai finita, ma per noi (studenti, lavoratori, precari, disoccupati, immigrati) è cominciata molto prima del 2007, attraverso una serie di provvedimenti che negli ultimi trent’anni hanno visto scivolare fette sempre più ampie della popolazione verso questo presente, fatto di feroce sfruttamento e miseria.
La verità è che la crisi non è una momentanea paralisi, ma un processo, una fase ciclica del capitalismo che funge da volano per una ristrutturazione del sistema economico e per un riequilibrio dei pesi a livello globale, il cui vero intento è l’ulteriore ridistribuzione del reddito dal basso verso l’alto.
E’ la storia di una società che precipita e che, mentre sta precipitando, si ripete per farsi coraggio: “Fino a qui tutto bene! Fino a qui tutto bene! Fino a qui tutto bene!”. Così, ad ogni sconfitta collettiva, qualcuno continua a ripeterci che bisogna fare sacrifici tutti assieme per superare il momento, che la crisi è passeggera e che fin qui tutto bene. E noi gli crediamo. Ma il problema non è la caduta, è l’ atterraggio!
Così tra un attacco speculativo, un declassamento da parte di qualche agenzia di rating e tanti inviti a fare ‘sti benedetti sacrifici siamo arrivati all’apice della crisi. Ma le cose sono state così veloci (soprattutto negli ultimi tempi ) che si rischia di non capirci più niente in quest’escalation.
Tentiamo di riprenderne le fila. Nel biennio 2008 -2009 gli stati hanno speso ingenti risorse pubbliche per risanare i bilanci delle banche, le quali hanno accumulato debiti a causa di prestiti che non avevano un’adeguata copertura. La tempesta finanziaria si è abbattuta in maniera particolare su Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda (i cosiddetti PIIGS), perché detentori dei più alti debiti pubblici. La natura ricattatoria del debito pubblico è dimostrata dalle politiche di austerità imposte dai governi locali alla cara vecchia classe lavoratrice, che vengono spacciate per risolutrici, ma che in realtà hanno l’effetto di incrementare il debito stesso.
Un paio di considerazioni sulle soluzioni che ci vengono proposte:
a) La crescita. Questo è un tema che sembra trovare tutti d’accordo, ad invocare i provvedimenti per la crescita infatti sono la Marcegaglia, Montezemolo, Della Valle (che ultimamente ha addirittura comprato le pagine di alcuni giornali per criticare l’operato del governo) come portavoce dei grandi capitali italiani, ma anche la Camusso segretaria della CGIL, il solito PD e l’immancabile Giorgio Napolitano. Tutti irreprensibilmente in linea con Trichet e Draghi e quindi con il programma dell’UE.
Ma cosa si cela dietro questo furbesco richiamo alla modernizzazione? Nient’altro che la ricetta del grande capitale: portare a compimento quel processo di privatizzazioni dei servizi sociali che è ormai in atto da anni rendendo profittevoli quei settori come sanità e trasporti che non dovranno più rispondere all’interesse collettivo, ma alle logiche aziendali; rendere accessibile il mondo della formazione solamente ai più “meritevoli” o meglio a i più danarosi, finanziando si la ricerca, ma solo quella improntata a scaricare i costi delle aziende; rendere ancora più flessibile il mercato del lavoro soprattutto in uscita affermando l’unica libertà di cui i padroni si fanno promotori, quella di licenziamento;
b) Il consenso. E’ chiaro che, se i ragionamenti che ci siamo fatti fin ora filano (e purtroppo la realtà ci dimostra che filano), tutti i governi indipendentemente dal colore delle coalizioni in carica sono costretti al utilizzare la stessa pozione anti-crisi, i cui ingredienti principali sono le ormai tanto famose lacrime ed il tanto famoso sangue della classe lavoratrice. Ed è altrettanto chiaro che queste coalizioni o forse è meglio chiamarle blocchi di potere, per intenderci, stanno perdendo anche se con percentuali diverse il consenso di cui godevano precedentemente. Non solo il greco Papandreu e lo spagnolo Zapatero non vedranno la prossima legislatura, ma addirittura la cancelliera di ferro, la Merkel ed il democratico guerrafondaio Obama vengono dati in discesa da sondaggi e proiezioni. Ed anche in Italia si ricomincia a sentire la solita cantilena di quelli che vogliono scalzare Berlusconi come se fosse il nostro unico problema. Chi propone questa soluzione nel migliore dei casi non ha colto vastità e portata della crisi di quello che, con un fine espediente retorico, i giornalisti chiamano “mercato”. Che sia verde, blu, arcobaleno o a pallini anche il governo che verrà sarà costretto ad assumere i provvedimenti che il suddetto “mercato” gli indica.
Ma allora qual è la soluzione?
È proprio quando le ginocchia sembrano cedere sotto il peso degli attacchi che ci vengono portati bipartisan da destra e da sinistra, da imprenditori e sindacati, da UE, governi e amministrazioni locali, è proprio quando sembra che siamo destinati a onorare debiti che non abbiamo contratto, e non volevamo contrarre, in preda ad una coatta sindrome di Stoccolma, che ci vede costretti a salvare il nostro aguzzino, che riscopriamo la nostra grande risorsa. La responsabilità.
La responsabilità di proporre l’ unica soluzione possibile, quella di dirsi “irresponsabili” di questa crisi e, quindi non tenuti a pagarla. Ma come? Ricominciando a pretendere tutto, costringendo chi i debiti li ha contratti e di sacrifici non ne ha mai fatti, a pagare tutto. Con l’obiettivo di invertire il trend che ci hanno proposto, puntando ad una redistribuzione del reddito in termini di salari e servizi sociali dall’alto verso il basso.
Ma come metterli con le spalle al muro costringendoli a pagare davvero questa crisi? L’unica via possibile, perché già battuta in precedenza e con esiti positivi, è quella della lotta. Ma il morale dei soggetti in lotta, in questi anni di estenuanti e difficili battaglie, si è comprensibilmente abbassato, mentre attorno a noi quelle che sembravano (poche) certezze, si sgretolano sempre più sotto il peso dei colpi della lotta di classe all’incontrario: quella che da 30 anni a questa parte i padroni conducono contro di noi per riprendersi con gl’interessi tutto quello che avevamo strappato! Il punto è che non sta nella quantità delle battaglie che si ingaggiano l’esito positivo della lotta, ma bensì nella loro qualità. Con qualità ci riferiamo alla nostra capacità di sviluppare organizzazione e forme di coordinamento reali, che siano in grado di mettere in pratica quello che da anni urliamo nelle piazze: unità delle lotte. Unità di tutti quei soggetti realmente interessati al cambiamento dello stato di cose attuale, in quanto ormai siamo tutti sempre più convinti (dal popolo americano che assedia Wall Street alle piazze europee, arabe ed asiatiche) della necessità di costruire un’alternativa a questo sistema che non è solo in crisi, ma che è esso stesso la crisi!
THE POWER OF PEOPLE IS STRONGER THAN THE PEOPLE IN POWER!