Il 15 aprile dello scorso anno ci lasciava Vittorio Arrigoni. Vittorio non è semplicemente morto, è stato sequestrato, torturato e ucciso. Ancora oggi sulla vicenda si è fatta poca chiarezza, ma noi sappiamo che a prescindere da chi abbia compiuto nei fatti questo gesto, la colpa è di chi vuole che mettere a tacere chi, come Vittorio, prestava le proprie parole ad un popolo che non ha voce. La colpa è di chi distrugge case, famiglie, vite e semina solo odio e rancore. La colpa è di Israele.
Ma chi era Vittorio Arrigoni e perché abbiamo deciso di riparlarne ad un anno dal suo assassinio? Parliamo di un attivista soprannominato “Utopia”, di un uomo che ha rinnegato giovanissimo la sua vita da occidentale per sfidare la morte in terra di Palestina, ogni giorno, fino all’ultimo, credendo nel riscatto e nella liberazione di un popolo oppresso, umiliato, straziato da Israele e dall’ideologia sionista.
Vittorio con il peso dell’ingiustizia e della violenza ci faceva i conti da sempre. Eppure, piuttosto che restarne soffocato o di difendersi da tutto questo con sorda indifferenza, ha deciso farne un fardello e di partire, di vivere al fianco dei suoi fratelli e compagni palestinesi, di condividere con loro il terrore delle bombe e dei colpi sparati addosso, ma soprattutto la sofferenza di una vita in bilico, consumata dall’incubo di un passato atroce e di un futuro incerto ma sicuramente altrettanto crudele.
Soprattutto ha deciso di narrare tutto questo, squarciando il velo di indifferenza e mistificazione che da sempre protegge Israele, rendendo invisibile, da questa parte del mondo, lo strazio del genocidio palestinese.
Ma non si limitava a narrare e a descrivere. Vittorio ci ripeteva continuamente di restare umani, di combattere contro quell’abitudine che porta a vedere ciò che accade lontano da noi con indifferenza o rassegnazione, di saper rinascere in Palestina o in qualsiasi altro posto del mondo dilaniato dall’imperialismo pur svegliandosi ogni giorno in casa propria e nella propria vita; di sentirsi oppressi quanto chi è oppresso, vittima quanto chi è vittima, partigiano quanto chi combatte da una vita per il riscatto del proprio popolo. Restare umani vuol dire proteggersi dall’anestesia di chi la violenza vuole farcela assorbire al punto tale da cancellare in noi ogni forma di disgusto, di riprovazione, di ribellione a questo stato di cose. Significa continuare a distinguere un uomo ferito da un pezzo di macelleria, case abbattute da ammassi di macerie, famiglie distrutte da individui anonimi.
Per uomini come Vittorio è sempre troppo presto per andare via. E limitarsi a ricordarne la morte, rendendolo l’ennesima icona di una vita spesa in modo esemplare (purchè questo esempio, però, lo dia sempre qualcun altro) sarebbe come trardirlo e ucciderlo di nuovo. Scrivere di Vittorio oggi deve rappresentare solo l’ennesima ripartenza verso un impegno continuo al fianco dei popoli in lotta, perché se ne conoscano la storia e le ragioni, perché si impari a riconoscere il torto, perché si ricordi e ci si schieri, perché ci si impegni a fare in modo che non li inghiottisca il solito silenzio complice di chi la Resistenza ha interesse a sopirla per sempre.
Con Vik e con il popolo di Palestina nel cuore!
“Continueremo a fare delle nostre vite poesie, finchè libertà non verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi”.