VIVERE A GAZA, FUORI E DENTRO LA GUERRA
Piombo Fuso, 27 dicembre – 18 gennaio. Un nome che evoca ricordi, terrore, morte.
Da tempo in Palestina non si viveva un’azione militare di tali proporzioni, non si subiva la forza bruta dei bombardamenti, dei colpi di artiglieria, dei militari israeliani che usano i corpi dei palestinesi come scudi umani per entrare nei cosiddetti “covi del terrorismo”, delle chiamate a casa un minuto prima di distruggere le 4000 abitazioni (oltre alle altre 16000 parzialmente distrutte).
Soprattutto era da tempo che non si vedevano così tanti morti. Quasi 1500, di cui sicuramente 500 bambini, oltre che tantissime donne e anziani.
Può sembrare fuori contesto, persino banale parlare di salute mentale in Palestina. Con tutti i problemi “materiali” e di salute fisica che ci sono qualcuno potrebbe ritenere secondario il problema per esempio della depressione o del disturbo post-traumatico da stress a Gaza. Eppure è anche così che si combatte un’altra guerra appunto, quella che tacciono i media di massa e che però fa, se vogliamo, ancor più vittime del momento bellico acuto, solo nel silenzio, nel tempo, come uno stillicidio di anime che non puzzano di piombo ma che muoiono lo stesso, oppure vivono ma sono morte.
Questa guerra è una guerra perché è programmata, pensata e messa in atto esattamente come un bombardamento, come un’incursione, solo che non sono i generali che la gestiscono ma i nuovi combattenti dai colletti bianchi, quelli che non avranno neanche il coraggio di guardare negli occhi le loro vittime, misurando i successi coi numeri, per esempio quelli dei lanci dei razzi Qassam, questi fuochi d’artificio che ancora il mondo considera armi, complici i media corrotti e servili.
Il Gaza Community Mental Healt Programme è un progetto comprendente diversi studi scientifici effettuati sulla popolazione della Striscia di Gaza, ottenuto attraverso interviste sulle singole persone. C’è da premettere che nel metodo appare contestabile usare vittime di guerra quasi come cavie su cui effettuare studi anche remunerati e quotati dalla comunità scientifica mondiale, quasi a sfruttare i teatri di guerra a fini di prestigio e ritorno personale. Tale ritorno e circuito perverso si evince e viene dimostrato anche nelle conclusioni degli stessi studi che anziché soffermarsi sulle cause, sulle responsabilità e sulle relative condanne anche semplicemente e genericamente alla guerra pretendono come soluzioni “leggi internazionali per proteggere i civili durante il conflitto e che istituiscano un luogo sicuro per i bambini e le loro famiglie al fine di diminuire gli effetti della guerra su questa fetta di popolazione. Inoltre, più interventi devono essere condotti sul gruppo base e concentrati su come aiutare i bambini a superare i loro traumi e dolore”. Sembrerebbe quasi che la soluzione alla guerra sia semplicemente l’innescare quel meccanismo a spirale guerra-profitti che prevede da un lato le bombe dall’altro gli “aiuti”, in modo di mitigare il giudizio dei popoli, sbiadire la figura dei carnefici attribuendo loro un volto umano, in ultimo preparare il terreno ad un altro esercito, quello di moltissime ONG e di gruppi “umanitari”, sempre pronti a “dare una mano” quando ce n’è bisogno, sostenendosi economicamente (in pratica un’economia che esiste solo grazie alla guerra) e aiutando a presentare il mondo occidentale come quello che “fa anche tante cose belle”. Per di più nel caso specifico sembra che la soluzione a questi problemi, più che la lotta o la denuncia, possa essere la medicalizzazione di una società con gli psicofarmaci o con forme di assistenza che al più andrebbero a limitare i danni, nella peggiore delle ipotesi a creare un cimitero di morti viventi.
Nonostante tutto questo quello che si evince da questi studi è interessante, può e deve essere reso pubblico. In sostanza essi evidenziano le conseguenze a lungo termine, i lasciti del conflitto, e potremo dire dei conflitti, visto che da studi simili precedenti “Piombo Fuso” si ricavano risultati simili nella valutazione della popolazione palestinese.
Abbiamo valutato 3 di questi studi.
Il primo si propone di valutare il Disturbo Post-Traumatico da Stress e il lutto sui bambini a seguito dell’esperienza traumatica della guerra. I bambini riportano un numero impressionante di eventi traumatici, un’insicurezza generale per quanto concerne la loro salute e quella delle persone care. E’ ovviamente impressionante l’incidenza del Disturbo Post-Traumatico da Stress. Senza soffermarsi troppo basta pensare che solo l’1,3% dei bambini non ne è affetto in alcun modo e che la presenza e il grado del disturbo sono strettamente correlati all’evento traumatico subito durante la guerra. Le esperienze di lutto sono altrettanto significative, con un bambino su 10 che ha subito la perdita di un familiare, alla quale si aggiunge il trauma di una perdita subita durante un bombardamento o comunque in un contesto oggettivamente traumatico. Secondo molti autori, questa circostanza rappresenta un aggravante clinica del lutto, la premessa per una difficile e complicata elaborazione e, soprattutto nei bambini, l’ostacolo al superamento dell’esperienza lutto con sequele permanenti a tutti i livelli, compreso quello cognitivo e affettivo. Questo studio non tiene conto del lutto dei non familiari, che senza dubbio appartiene ad una fetta ancor più consistente della popolazione infantile.
Un altro studio mette in luce la presenza di sintomi quali l’angoscia di morte, il lutto complicato e quelli da Disturbo Post-Traumatico da Stress negli adulti, evidenziando risultati simili al primo, suggerendo però anche una correlazione significativa con la tensione dovuta ad un conflitto permanente e non solo quello acuto del dicembre scorso, così come interessante è la significativa prevalenza dei sintomi nelle donne, forse perché nel contesto sociale analizzato c’è resistenza da parte degli uomini ad ammettere alcuni tipi di sentimenti quali l’angoscia e la paura ma forse anche per il fatto che le donne sono in prima linea e più esposte negli interventi di soccorso e di aiuto ad immagini ed esperienze traumatizzanti.
Dal terzo studio, tra l’altro, si evince un dato impressionante per quel che concerne l’ansia e la depressione nella popolazione di Gaza. Il 75% circa della popolazione presenta questi disturbi e c’è la tendenza da parte di queste persone ad affidarsi con sempre maggior accanimento alla fede, alla famiglia e ai legami sociali, presagendo in questo modo una tendenza a posizioni conservatrici e fataliste.
Oltre questi 3 studi c’è da soffermarsi su un dato che completa la panoramica su questa guerra senza armi combattuta a colpi di tensione, ansia, paura.
Questa impossibilità di pensare a uno sbocco, di pensare ad andare avanti, a produrre, in una fetta di terra dove la povertà è altissima anche grazie a queste pratiche che annientano e annichiliscono gli uomini, costringe ad un’emarginazione non soltanto internazionale, economica, culturale, ma anche esistenziale, con in ultimo l’impossibilità ad alzare la testa e a lottare. In questo teatro di emarginazione c’è qualcosa che invece passa ovunque, valica i muri che per le persone sono insormontabili, supera blocchi economici solidissimi per tutte le altre merci. E’ la droga.
Per capire come essa contribuisca all’annientamento del popolo palestinese e di come ci siano tutti gli elementi per pensare all’ennesimo caso di “droga di stato” (dopo l’eroina democristiana degli anni ‘70-‘80 in Italia e l’alcool e l’eroina stelle e strisce sulle Pantere Nere nella fine degli anni ’60, prima ancora lo sterminio alcolico dei nativi d’America) basti pensare che l’unica cosa che passa il blocco e i valichi tra Israele e la Striscia di Gaza pare proprio essere la droga, e d’altra parte l’incidenza della tossicodipendenza da farmaci e droghe è diventata impressionante a Gaza e anche nel resto dei territori della Palestina.
Evocative in tal senso sono anche le politiche di sussidi dello stato d’Israele per i palestinesi sotto giurisdizione israeliana. 300 sheqel (quasi un mezzo stipendio medio di un paese occidentale in termini di potere d’acquisto) se si dimostra di essere tossicodipendenti attraverso una semplice analisi del sangue in giorni prestabiliti. Per gli israeliani l’iter è molto più complicato. Inoltre nei territori occupati, secondo testimonianze dirette di ex-spacciatori o tossicodipendenti, è molto più facile commerciare droga che fare qualsiasi tipo di lavoro onesto. Nel primo caso si può dire che i posti di blocco e i militari chiudano più di un occhio, mentre per andare semplicemente a scuola o a lavoro un palestinese deve spendere anche 4 ore a causa dei fermi e delle perquisizioni dell’esercito, anche questa pratica l’ennesima di quella strategia a lungo termine di esasperazione, di annichilimento, di abbrutimento e annientamento di un popolo.